Eschilo ed il teatro greco
Sicania, 12 maggio 1948
Eschilo ebbe il merito di trasformare la tragedia, che si era formata dopo Tespi, traendola fuori dal binario morto della tradizione, apportando quelle profonde modificazioni che le diedero un volto nuovo ed un significato particolare. Facendola finita con gli schemi classici che l'avevano irrigidita quella che, in origine, secondo Aristotele, fu una improvvisazione di corifei che guidavano i ditirambi, divenne una delle arti più significative dell’Ellade, divenne l'espressione altamente poetica e profondamente umana delle vicende tragiche di cui abbondava il mito greco.
Dei novanta drammi scritti dal tragico d'Eleusi, l'unica trilogia rimastaci è l’Orestea. Eccettuati I Persiani, che costituiscono un dramma a sé, Il Prometeo, Le Supplici ed I Sette a Tebe sono parti staccate di trilogie diverse. Per la grandiosità delle concezioni, e per non costringere i suoi drammi al supplizio di Procuste, Eschilo preferì svolgere i suoi soggetti in un ambito più vasto e di più largo respiro, che non il semplice dramma in un atto, che costringeva a visioni anguste ed episodiche ed importava una serie di limitazioni di tempo e di spazio.
I personaggi che la sua fantasia creò incessantemente, con la materia fornita dal patrio mito, sono dèi, eroi o uomini che compiono atti sovrannaturali; le azioni sono degne dei personaggi che le vivono e la scena, su cui sono proiettati attori ed azioni, è parte integrante delle imprese formidabili, proporzionate alle figure gigantesche degli attori. La lingua stessa, lampeggiante di parole e di immagini vivissime, non fu quella comune, ma uno strumento modellato e piegato alle esigenze della tragedia. Aristofane, nelle Rane, avverte questa potenza di espressione, scrivendo di Eschilo che “avventa compagini ferree di motti, come tavole una tempesta, con soffio di gigante”.
Clitennestra, Egisto, Oreste, Elettra, i personaggi principali dell’Agamennone, delle Coefore e delle Eumenidi, sembrano invasati da una furia dionisiaca di distruzione, che li spinge ad agire come forsennati, nella ricerca disperata di soddisfare una sete di dominio, di lussuria o di vendetta.
Accanto a loro, Agamennone, Cassandra e i personaggi minori offrono uno strano contrasto di calma rassegnazione; conoscendo la inutilità di ogni ribellione vanno incontro alla loro sorte come vittime volontarie di un sacrificio indispensabile.
Minerva ed Apollo scendono dal loro piedistallo per mischiarsi e confondersi con i mortali, ma hanno lasciato all'Olimpo quasi tutti gli attributi della loro divinità.
In una ridda allucinante, tutti gli attori di questa tragica vicenda si urtano, si incrociano, si sfiorano, senza unirsi o fermarsi mai. I loro gesti, le loro azioni, le loro parole aspre come l'incrociarsi di spade, trascendono l'umano; il loro dramma, che é il dramma dell'umanità, è illuminato da un bagliore soprannaturale, che sfigura o distrugge ogni confine tra realtà e fantasia, tra umano e divino. E, su tutto, al di sopra delle passioni degli uomini e al di sopra della volontà degli stessi dèi, domina implacabile la legge del Destino, che muove a suo piacimento le fila di questa trama intessuta di luci e di ombre, di amore e di odio, di perdono e di vendetta. Su tutto incombe il senso tragico del fatalismo, per cui nessuno può sottrarsi al proprio destino, a quel destino che farà abbassare supinamente la testa, sotto i colpi di Clitennestra, alla figlia di Priamo, conscia della propria fine.
Dall'assassinio di Agamennone e di Cassandra alla uccisione di Clitennestra e di Egisto, è tutto un crescendo tragico pauroso, che culmina nella fuga senza mèta di Oreste, tormentato dal rimorso, inseguito dalle Furie materne, in cerca di quella pace che Apollo - il dio che lo ha spinto ad uccidere – direttamente non può dargli.
In tanta oscurità, in questo fosco susseguirsi di perversità, un primo chiarore si avverte nell'ultima parte del dramma, entro il tempio di Delfi, quando Apollo scaccia il diabolico stuolo delle Erinni, per permettere la fuga di Oreste ad Atene, dove sarà giudicato dall’Aeropago, il tribunale in cui tutto un popolo funzionerà da giudice.
E con il verdetto inappellabile di un popolo, che si sostituisce agli dèi ed assolve con umana comprensione, tutto si acquieta, come la furia di una tempesta in un porto tranquillo, con il perdono che apporta la calma all'anima tormentata del matricida, vendicatore del padre, nella gran luce accecante del sole, che inonda l'Acropoli luminosa e fuga le nebbie del passato.
Dal 15 al 23 maggio, per iniziativa e merito dell'Istituto Nazionale del Dramma Antico, la trilogia eschilea verrà rappresentata al Teatro Greco di Siracusa. Alla realizzazione grandiosa della tragedia hanno collaborato i nomi più noti nel campo dell'arte classica. La traduzione dell'Orestea è opera di Manara Valgimigli, che ha portato felicemente a termine un esperimento di poesia in prosa; il commento musicale è stato affidato al mastro Malipiero; le scene sono state ideate e realizzate da Duilio Cambellotti, nome notissimo in questo genere di rappresentazioni; le danze saranno eseguite dalle allieve della Scuola di Vienna, dirette da Rosalia Chladek.
Annibale Ninchi, Salvo Randone, Sara Ferrati e Anna Proclemer fanno parte del complesso artistico a cui l'Istituto ha affidato l'interpretazione dei ruoli più importanti; lo scrittore Franco Libero Belgiorno curerà la radio-cronaca e la premessa per la registrazione e la trasmissione della trilogia.
L'ampia cavea del Temenite risuonerà tutta degli accenti poderosi e violenti degli eroi e degli dèi. In una scena sobriamente stilizzata, ci sfileranno dinanzi agli occhi stupiti, in una atmosfera arroventata, fra i riflessi d'incendio del tramonto, creature formidabili, travolte da eventi terribili e più forti di loro. Il dramma ci turberà profondamente come se uomini e fatti non fossero tanto distanti da essere circondati da un alone di misteriosa leggenda. Ed il turbamento persisterà tenace per tutto lo spettacolo.
Spettacolo immane a cui partecipa il cielo, la terra e, tutta intera, la natura; spettacolo arcano che apre orizzonti infiniti alla fantasia e suscita ricordi malinconici di vite vissute in ere favolose; spettacolo sublime che affascina e commuove come, appena cala la prima sera, oltre le latomie, affascina e commuove l'ultimo sorriso azzurro del mare.


Giovanni Modica Scala
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