La Grande Alluvione
Ed. Voce Libera, 1968 (ristampa Argo Edizioni, 2004)
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Tra me e l’alluvione del 1902, c’è un fatto personale.
Mentre per gli altri, a distanza di 67 anni, l’alluvione è il ricordo di un semplice, seppure tragico, fatto di cronaca, per me è storia di famiglia, come per Noè il diluvio universale. Il terzo capitolo, che dà il titolo alla monografia, lo spiega a sufficienza e ad esso rimando il lettore, con la più ampia assicurazione che il contenuto è scrupolosamente autobiografico.
Parlando di essa, in fondo, io parlo delle mie origini, del gioco sottile delle coincidenze, dell’alternarsi oscuro delle cause e degli effetti, di tutto ciò, insomma, che nel disegno astratto della natura, ha creato i presupposti della mia esistenza.
Non che l’avvenimento sia da considerare un fenomeno trascendentale, di quelli che modificano la storia del mondo o che danno l’impronta ad un’era, ma  se permettete  discretamente importante per me. Tanto, comunque, da giustificare il tempo e la fatica spesi nella ricerca delle fonti di informazione e nella raccolta dei dati, per integrare e ricostruire i ricordi confusi di cento racconti d’inverno, nel corso degli anni della mia lontana giovinezza, quando, con la testa abbandonata sul grembo caldo della nonna, sotto la cui gonna, ampia e complicata, ammiccava il rosso scaldino di rame, ascoltavo la sua voce tranquilla e sicura che, coprendo il pauroso duetto del vento e della pioggia, mi conciliava il sonno. Nel sottofondo, appena avvertito, del rumore esterno, la mia memoria afferrava nomi, date e fatti per depositarli nel limbo della mia inesperienza e creare una indescrivibile confusione tra i suoi racconti pieni d’orrore e la mia vergine serena realtà.
Risalire a quegli anni e far riaffiorare i ricordi sepolti sotto un quarantennio di esperienze, per lo più amare, piccoli sprazzi di luce nel buio del tempo, è stata una esperienza faticosa e sconcertante. Ed il risultato, oltre i limiti angusti della partecipazione diretta al dramma, assolutamente scoraggiante. Né mi è stata di aiuto la ricerca presso l’Archivio Comunale; tutti i fascicoli contenenti la documentazione del ventennio compreso tra il 1891 ed il 1910, sono misteriosamente scomparsi. Potrebbero trovarsi in qualche vecchio deposito dimenticato o essere stati trafugati da qualche collezionista di storie patrie o distrutti dall’incendio del Municipio, nel 1944. Una ipotesi vale l’altra; quello che è certo è che a Modica non è rimasto nulla che possa ricordare alle generazioni future, una delle pagine più drammatiche della sua storia.
L’Archivio di Stato conserva gelosamente, sino al punto di lesinarne la visione, le migliaia di domande dei danneggiati che io ebbi la ventura di leggere attentamente quando erano ancora proprietà comunale.
L’Archivio dell’Ente Milano Palermo... non esiste più. Volatilizzato. Scomparso. Senza lasciare tracce. L’avvocato Biscari, attuale Presidente dell’Ente, mi ha dichiarato sconsolatamente che, all’atto del suo insediamento, non trovò neppure una copia dello Statuto!
E’ stato necessario, perciò, effettuare le ricerche presso gli archivi dei Comuni che ebbero contatti con il nostro, nei giorni della tragedia, e presso le redazioni dei quotidiani e delle riviste che riportarono, per informarne il mondo, le notizie sulla Grande Alluvione.
Per ricostruire, con la maggiore esattezza possibile, le condizioni di vita del 1902 e poterle raffrontare con quelle attuali, è stato necessario attingere agli archivi di diversi Ministeri, Camere di Commercio, Scuole, Uffici Giudiziari e di altri Enti Pubblici.
Ma le testimonianze più sentite, più impressionanti sono state, fuor di dubbio, quelle fornite dai sopravvissuti alla alluvione ed al tempo; primo tra tutti, quel gentiluomo di vecchio stampo del farmacista Diego Vanella che mi fu prodigo di informazioni e che ricostruì fedelmente e lucidamente, nelle lunghe, sonnolenti pause domenicali, l’ambiente modicano dei primi del secolo. E poi: Raffaele Piccitto, mio zio, ex cassiere del Banco di Sicilia, figlio del farmacista che rimase appeso al gancio del soffitto; l’insegnante Alfredo Malfa che mi guidò nei primi passi delle elementari, figlio del sarto che salvò la sua famiglia, servendosi di una insegna pubblicitaria come di una scala; il cav. Ugo Arena, gestore del Cinema Moderno, figlio del barbiere che visse una breve quanto allucinante avventura; il gioielliere Angelo Cassone, figlio dell’orefice che subì, forse, il danno più rilevante: oltre cinquanta milioni di lire attuali.
Pochi nomi, per citare i più conosciuti, e tanti altri senza nome e senza volto, tranne per me che ho diviso con loro, per un giorno, il pane dell’ospitalità ed il fascino comune delle memorie.
A tutti loro che hanno contribuito a rendere più vive e più documentate queste pagine, il mio doveroso tributo di affetto e la mia riconoscenza.
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