La testimonianza nel processo contro Salloc l'ebreo
Le comunità ebraiche nella contea di Modica, pp. 155 e ss.
Come in parecchi processi dell'epoca nostra, eccezionali per la statura dei protagonisti o per la particolarità del delitto, l'opinione pubblica era divisa in due parti: i colpevolisti e gli innocentisti. Le due fazioni, inoltre, erano agitate dai partigiani di Salloc e da quelli del defunto Sabatino; i quali partigiani, più che per un'intima convinzione, sostenevano la propria causa per una forma di solidarietà, passiva e complice, che ha il suo corrispondente nell'attuale disciplina di partito. Salloc aveva i suoi «apostoli», versione anticipata dei «bravi» del Seicento, e Liuzzo poteva contare ancora sui numerosi sostenitori che avevano sollecitato e sostenuto la nomina a proto del figlio ucciso.

Nel corso del processo, mentre i testimoni prodotti da Liuzzo violentano l'onorabilità di Salloc ed esaltano le virtù di Sabatino, mentre i testimoni di Salloc si scagliano contro quelli di Liuzzo, facendo strage della loro vita privata ed infirmando le loro deposizioni, nessuno, tanto da una parte che dall'altra, ha una parola di biasimo o di offesa contro il defunto proto. Le trentaquattro deposizioni riescono a darci quello che nessun codice diplomatico può lontanamente suggerirci: una comunità, non vista come una fredda ed amorfa entità giuridica o politica, ma come un insieme di singoli uomini, pieni di vita, dai contorni nettissimi e individuali, agitati da passioni e da sentimenti contrastanti; una comunità, cioé, che ripudia la staticità dell'inerte documento per apparirci, mezzo millennio dopo, in pieno movimento, nella sua dimensione umana, in un ambiente ricco di colore e, a modo suo, di fascino.

La prima cosa che salta agli occhi, scorrendo le pagine del processo, è trovare ben dieci cristiani, tra i testimoni a discarico; e se, in generale, si tratta di tiepide e comuni attestazioni di stima nei confronti dell'accusato, le loro deposizioni contengono delle osservazioni che possono sembrare a prima vista irrilevanti, ma che si rivelano straordinariamente importanti come elementi di giudizio.
Ma, a parte il contenuto di queste testimonianze, ciò che importa rilevare è il fatto stesso di una presenza cristiana, in un processo in cui accusatore ed accusato, complici e testimoni, sono tutti ebrei. Il che dà adito a due riflessioni: prima, che, tenuto conto che agli ebrei erano negati i rapporti di familiarità con i cristiani (che risultano esistere, invece, per ammissione di quest'ultimi), si deve concludere che si tratti dei testimoni citati dalla Gran Corte; seconda, che le consuetudini giudiziarie della contea, in materia di testimonianza, si adeguavano alle prammatiche del regno. Mentre agli ebrei, infatti, era proibito testimoniare contro i cristiani, e ciò da sempre, un decreto di Federico, del 1310, dava ai cristiani il diritto di poter testimoniare contro gli ebrei 21.
Precedentemente a tale esplicito divieto per gli ebrei, vigeva nel regno la doppia consuetudine di ritenere valida la reciproca testimonianza o di respingerla 22; Federico, uniformandosi alle più antiche bolle papali sull'argomento, ritenne saggio concedere ai cristiani un diritto che, per la sola diversità della fede, era giusto negare agli ebrei.

La giustizia medievale, sul piano umano e morale o, più estensivamente, sul piano del diritto, non era quello che si può citare come modello da imitare. Il convincimento profondo di una inferiorità naturale tra i diversi ceti sociali era così radicato da portare il legislatore a sancire il principio che contro un conte potessero testimoniare validamente due conti oppure quattro baroni, oppure otto militi, oppure sedici borghesi 23. Quindici borghesi che testimoniassero contro un conte una versione uniforme ed unanime, non erano presi neppure in considerazione dal giudice che li vedeva come un complesso mutilato e, per tanto, non valido.
Anche le pene, del resto, erano differenziate; un medesimo delitto veniva punito con un anno di esilio, se a commetterlo era stato un milite, o con il taglio di una mano, se il colpevole era un borghese 24. Nel territorio della contea, un bando del governatore o dei giurati prevedeva, a carico dei contravventori, pene diverse, secondo si trattasse di uomo o donna, libero o schiavo, nobile o ignobile, adulto o minore 25.

Per tornare al valore di mercato dei testimoni medievali, in un tempo in cui la parola di un conte valeva più di quella di quindici borghesi, i villani, i servi e gli schiavi, anche se cristiani, costituivano entità talmente trascurabili da non essere presi in considerazione neppure con la consistenza di un esercito. Nessuna meraviglia, quindi, se agli ebrei, che nella scala della società cristiana erano considerati parecchio al di sotto dei servi «nobilitati dal battesimo», venisse proibito di testimoniare contro un cristiano, si trattasse pure di un miserabile schiavo. In questo clima di estremo rigore settario, non mancano, tuttavia, casi particolari in cui - assolutamente in contrasto con le leggi dello Stato e con la morale corrente - giudici illuminati negarono al cristiano il privilegio del giuramento, per favorire la giustizia, più che la controparte ebrea 26.

Nel periodo di cui stiamo trattando, i processi criminali si basavano esclusivamente sulle testimonianze scritte, raccolte in apposite udienze dal mastro notaro, alla presenza di un giudice che su esse fondava interamente il suo giudizio. Non esistevano allora, a conclusione della fase istruttoria, il pubblico dibattimento, le arringhe degli avvocati, le considerazioni filosofiche, gli artifici psicologici, le sottigliezze legali ed i meandri della giurisprudenza. Il giudice prendeva atto dei fatti su cui doveva giudicare, attraverso le testimonianze prodotte dall'accusatore e dall'accusato: ognuna delle parti, quindi, aveva tutto l'interesse di confutare i fatti, ricorrendo alla contestazione delle testimonianze di parte avversa. Ecco perché i testimoni costituivano la chiave di volta di ogni processo ed ecco perché le loro deposizioni erano disciplinate da una infinità di disposizioni procedurali, talmente minuziose da rasentare la pignoleria.
Il Medio Evo trasse dalla legislazione romana il principio che non potessero ammettersi in giudizio - o, se ammessi, con limitata credibilità - testimonianze di persone infami o di condizione servile. I testimoni dovevano essere, prima di tutto, degni di fede. L'estensione di questa qualità era molto più vasta di quella attuale, perché bastava un niente, un particolare insignificante e senza colpa, perché la testimonianza risultasse viziata; si pensi che ai testimoni cristiani, nel processo che ci interessa, si arrivò a chiedere se e quante volte, nel corso dell'anno, si erano confessati e comunicati, perché il giudice potesse tenerne conto 27.
Difettosi o inabili erano quei testimoni che non davano affidamento per l'età, per le condizioni sociali ed economiche, per i vincoli di parentela con la parte difesa, per l'inimicizia con la parte avversa e anche per le loro qualità morali, vere o presunte. Su queste, specialmente, scavavano i testimoni di una parte, per dimostrare che quelli dell'altra erano persone di baxa condicione, di mala et pexima vita, danni putti et bagaxie ovvero chiaiteri o minzognari che facilmente dicono male di questo o di quello 28. Vedremo a quali eccessi, a livello di calunnia e diffamazione, arriveranno i testimoni di Salloc contro quelli di Liuzzo.
(...)

______________________________________

21.     Cfr. Cap. LXVII di Federico: De statuto, ut Christianus non sit testis contra Judaeos, sublato. In Testa: op. cit., tomo I, p. 79. In un piccolo errore di interpretazione è incorso il Gaudioso a cui, forse, è sfuggito il «sublato» dell'intestazione del Capitolo, con l'ovvio significato di «annullato, revocato» riferito a Statuto. Tale distrazione è alla base di una sua affermazione, secondo cui re Federico, con i Capitoli del 1310, ingiungeva che i cristiani non potessero testimoniare contro gli ebrei; esattamente il contrario di quanto, ampiamente e chiaramente, oltre che dall'intestazione, si evince dal testo del Capitolo. Cfr. M. Gaudioso: op. cit., p. 84. Cfr., pure, C. L., doc. n. XXXIV.

22.    Il Di Giovanni (op. cit., pp. 90-91) osserva malinconicamente che in alcuni luoghi della Sicilia vigeva la «sconvenevole usanza» anzi, peggio, «la prava costumanza» di rigettare nei giudizi la testimonianza dei cristiani contro gli ebrei. Fin qui non fa che ripetere pedissequamente il testo del Capitolo di re Federico; di suo, aggiunge che «in Messina non era accettata la testimonianza dei cristiani contro gli ebrei, come quella degli ebrei non era fatta buona contra ai cristiani, laddove in Palermo fu interdetto, sì, che gli ebrei, i saracini e gli eretici potessero fare testimonianza contra i cristiani, non già che i cristiani potessero farla contra di loro».

23.    Constitutiones di Federico: lib. 2°, rir. 32. Cfr., pure, R. Gregorio: op. cit., p. 241.

24.    Cfr. R. Solarino: op. cit., vol. 2°, p. 22.

25.    G. Modica Scala: Silloge ecc., op. cit., vol. I, doc. n. 41: Bando della fontana, riportato al n. 5 dell'Appendice.

26.    Nel mese di dicembre del 1481, in una controversia fra un cittadino cristiano che accusava, con giuramento, un ebreo, di avergli venduta una zappa a prezzo superiore a quello stabilito dall'ordinanza municipale, i Giurati di Catania, su consiglio dei Giudici ordinari della città, non accettarono il giuramento del cristiano e, al contrario, deferendolo al giudeo, gli fichiru fari juramentu sollemni a la Muskita secundum morem judeorum. Il giudeo prestò giuramento ed i Giurati lo assolsero dalla pena del bando. Da M. Gaudioso: op. cit., p. 58, che rileva l'episodio dagli Atti dei Giurati di Catania, vol. XXV, f. 465.

© 1920-2024 – Tutti i diritti riservati. L'intero contenuto del sito è coperto da copyright.
È vietata la riproduzione, anche parziale, di immagini, testi o contenuti senza autorizzazione (vedi normativa vigente).
Maggiori informazioni? Mettiti in contatto
made by bonu-q