Le carceri del castello dei conti di Modica
Le comunità ebraiche nella contea di Modica, pp. 207-208
Abbiamo già detto, a proposito di carceri, che l'universitas, se non addirittura la giudecca, aveva un suo luogo di detenzione, una specie di camera di sicurezza, dove venivano rinchiusi i responsabili di piccole in frazioni alle leggi, sul genere di quella commessa da Salvo giudeo, e forse anche, a titolo provvisorio, i malfattori in attesa di trasferimento nelle carceri del castello; cioé da la prixunia di la terra a la prixunia in lu castellu 13.

Le carceri del castello di Modica erano, ovviamente, ben altra cosa che il carcere locale. Erano destinate, anzitutto, a luogo di pena, nel senso letterale dell'espressione; ospitavano, cioé, delinquenti e malfattori che dovevano scontare condanne più o meno lunghe alla reclusione. In relazione, poi, alla durata della pena ed alla gravità del delitto, le carceri avevano una diversa ubicazione nella topografia della fortezza e, sopratutto, una diversa - più o meno inumana - conformazione.
Nello spazio compreso tra le mura esterne del castello e quelIe interne, vale a dire nelI'ambito del grande baglio, l'antico vallum, trovava posto, accanto alle caserme ed alle scuderie, il carcere civile o «onesto» che ospitava i condannati a pene leggere, i debitori insolventi e le donne. Vi venivano rinchiusi anche i testimoni reticenti a cui era necessario sciogliere la lingua nel carcer torquendorum o camera di tortura.
Il carcere criminale vero e proprio, per maggiore sicurezza, veniva ricavato nell'area del baglio piccolo, nel punto più fortificato dell'intero castello, dove si trovavano gli appartamenti del conte e della sua corte, gli alloggiamenti degli ufficiali e la Chiesa14. Questo secondo carcere, destinato ai delinquenti più pericolosi, era costituito da celle piccolissime, basse e strette, tanto da non permettere al condannato una posizione eretta o distesa. Ma laddove la vendetta sociale esplodeva nel sadismo e si manifestava in tutta la sua orrenda malvagità, era nella cosiddetta «grada» 15 o fossa, una specie di tomba sotterranea dove venivano calati dall'alto i condannati per delitti gravi.
Questo particolare carcere di terzo grado veniva ricavato interamente nella roccia, come una catacomba, e vi si accedeva attraverso un cunicolo verticale di sei o sette metri, che veniva chiuso con un grande lastrone di pietra - che richiamava l'idea di una lastra tombale per sepolti vivi - fermato da sbarre trasversali di ferro. Luce ed aria, in piccolissime quantità, entravano da una stretta finestrella, aperta nel lastrone e difesa da una robusta inferriata, oppure attraverso una stretta feritoia, nella parte più alta del locale sotterraneo che - come quello del castello di Modica 16 - dava su uno strapiombo di oltre cento metri, un vero abisso che assicurava il castellano contro ogni tentativo di fuga.

Nel fondo di questo locale, capace di contenere sino ad una ventina di prigionieri, i criminali venivano incatenati ai ceppi con le mani ed i piedi assicurati in robuste catene fissate alle pareti. Un supplizio crudele, quanto inutile, era inflitto ai condannati in grada cum compedibus; una aggravante della pena, che consisteva nell'aggiunta di un peso alle catene, non inferiore ai cinque chilogrammi, una versione evoluta dell'antica pena inflitta agli schiavi fuggitivi 17.
In una di queste terribili fosse del castello di Modica, era sepolto l'assassino Josep Riczuni; la pesante lastra tombale che ne chiudeva l'ingresso si sarebbe aperta per lui il giorno in cui una schiamazzante plebaglia lo avrebbe accompagnato sino al patibolo. E chissà che a questo giorno, il rozzo pescatore d'anguille non guardasse come alla fine delle sue sofferenze e che alla morte non sospirasse come ad una liberazione.
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14.    Cfr. infra, pp. 28-29. I due «bagli»: grande e piccolo, hanno il loro corrispondente nella corte esterna e nella corte interna dei maggiori castelli medievali.

15.    Con uno dei capitoli presentati nel 1449 ad Alfonso, contro l'università cristiana, la giudaica di Siracusa lamentava che li officiali di la dicta chitati, per omni simplichi causa, ad loro plachiri... solino mandari prixuni ali prothi et mayurenti ac officiali di la dicta judeca in la grada et prixunia undi si mectinu quilli persuni ki si sentencianu et divinu muriri, e chiedeva che per i reati di carattere civile o, comunque, non infamanti, gli imputati sottoposti a giudizio venissero messi in cortiglu di la prìxunia oy ad altra parti honesta. Cfr. CL. n. CCCLXXXIV, cap. VI.

16.    Nel 1909, in occasione di uno sbancamento sul piano del castello di Modica, alcuni operai scoprirono la bocca di uno di questi pozzi. Attaccato ad una robusta fune, vi calarona un ragazzo quattordicenne, apprendista scalpellino, munito di un lume da carretto. Sul fondo del pozzo, ancora attaccati a rugginose catene di ferro, il terrorizzato adolescente scoprì sei o sette scheletri umani. L'esplorazione si fermò lì e la fossa, riempita con materiale di riporto, venne restituita al suo secolare mistero di morte. Il ragazzo che mezzo secolo dopo, raccontando la terribile esperienza vissuta a figli e nipoti, mostrava ancora negli occhi i segni di una antica paura, era mio padre. Il direttore dei lavori era l'ing. Xibilia dell'Ufficio Tecnico Comunale; l'episodio è ricordato anche dal capomastro Orazio Maltese, di qualche anno più giovane di mio padre. Molto probabilmente, gli scheletri appartenevano a prigionieri che vi si trovavano rinchiusi quando il terremoto del 1693 li seppellì per sempre sotto le immense macerie del castello.

17.    In origine i compedes erano delle spranghe di ferro lunghe circa 50 centimetri, assicurate mediante due anelli terminali ai piedi degli schiavi che si erano resi colpevoli di tentata fuga. Anche qui, la crudeltà si accompagnava alla pena. Laddove delle semplici catene avrebbero assicurato - oltre che la riparazione della giustizia offesa e la impossibilità di una nuova evasione - un certo libero, seppure pesante movimento delle gambe, i compedes costringevano gli schiavi a camminare stentatamente con le gambe aperte e rigide. Su questo diritto che avevano i padroni degli schiavi fuggitivi - in sostituzione di più atroci supplizi, quali la flagellazione o il taglio delle membra - si veda il cap. LXII di Federico, in Testa: op. cit., tomo I, pag. 77.

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