Wietzendorf (I morsi della fame)
6 gennaio 1945
Le giornate, rotte soltanto in funzione del cibo, passano sempre uguali, nella sfibrante attesa di una chiamata al lavoro, che ci tragga fuori da questo campo infernale. Sdraiati sempre sulla coperta che ci fa da pagliericcio, io e il mio compagno di catena, stretti l'uno all'altro, per temperare il rigore dell'ambiente gelido, passiamo venti ore su ventiquattro, in una immobilità quasi assoluta, a sognare ad occhi aperti un avvenire pieno di luce e di calore, a formulare meravigliosi progetti che si riassumono in un dogma che ha la forza della fede: non più mangiare per vivere, ma vivere per mangiare. Passiamo ore ed ore, ininterrottamente, a ricordare i piatti che abbiamo mangiato e a programmare quelli che mangeremo; in questo farneticare quotidiano, pur nel freddo tremendo in cui vegetiamo come ibernati, tornano alla memoria le cassate gelate del caffè Dimartino o gli spumoni del Caffè Bonaiuto o le granite di caffè con panna del bar Sabellini, divorate con croccanti rosette da venti centesimi. E come non ricordare le “arancine” di zio Giorgio, infarcite di carne, piselli, uova sode e formaggio? E, nel ricordo di tante cose buone, mai giustamente apprezzate quando potevamo averle, solo che le avessimo volute, inventiamo pietanze strane che hanno in comune la titanica dimensione; pietanze che tornano nei sogni di ogni notte e ci fanno girare e rigirare sulle assi sconnesse, in un delirio di fame. Ma ci pensate? Sentire il profumo inebriante della “impastata” di crusca che mia nonna, in capaci ciotole, ammanniva per la galline starnazzanti nella stia fuori della porta? E desiderarle vogliosamente, sino a sbavare di cupida bramosia?

Fame, fame, fame. Fame che sopprime ogni altro sentimento, ogni pulsione del cuore e della mente, ogni idealismo patriottardo. Penso a quei “forti” che hanno fischiato i “repubblichini”,solo perchè avevano ancora le tasche piene di lire, di dracme o di marchi, e gli zaini pieni del ben di Dio proveniente dall'alta Italia; che hanno ostentato spagnolesche albagie per quei “morti di fame”, per quegli sventurati, venduti ai fascisti per un tozzo di pane miserabile. Penso a queste coscienze adamantine, che ci hanno parlato di dignità, quando i tedeschi a Kustrin ci avevano offerto la possibilità di lavorare come autisti civili. Penso a queste torri d'avorio, che non hanno conosciuto ancora la fame, la vera fame, quella che strazia le viscere e non fa dormire, quella cha ammanta di bianco opaco tutte le cose e le rende tutte uguali, uniformi, evanescenti; quella che dà fitte terribili al cervello, che ci fa guardare con occhio omicida quanti mangiano a quattro palmenti, quella che annulla ogni confine tra bene e male, quella che ci fa odiare la vita, senza farci desiderare la morte.
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