Alla ricerca del tempo perduto
Autobiografia
Ed. numerata, Modica, 1991
C'e un tempo per gioire
e c'è un tempo per piangere.
C'è un tempo per vivere
e c’è un tempo per morire.



Sì, lo so, il titolo che raccoglie i miei ricordi è lo stesso che Marcel Proust usò per la sua opera più celebrata: À la recherche du temps perdu e, forse,come per quelle dello scrittore francese, un redivivo Benedetto Croce accuserebbe queste mie pagine di decadentismo erotico.
Sia chiaro: tale ipotetica imputazione non turberebbe affatto il mio spirito perché un giudizio del genere, oltre che eccessivamente sbrigativo e riduttivo, deporrebbe a favore di uno sterile antiromanticismo e di un arido razionalismo, in contrasto con la vita, quella vera, quella intensamente vissuta nelle più alte ed opposte manifestazioni della gioia e del dolore, in quell'insieme di emozioni e sentimenti che coinvolgono, in armonica simbiosi, spirito e materia. Se questo è decadentismo, come reazione al naturalismo del filosofo abruzzese, je suis - come Paul Verlaine - l'empire à la fin de la décadence.
(omissis)
Alla ricerca del tempo perduto, quindi. Perchè, lieto o triste che sia, il passato - cristallizzato in una struttura immutabile - appartiene al tempo perduto per sempre. Rivivere l'essenza di quanto nel passato è stato vissuto come esistenza immediata è il tentativo di trasformare in qualcosa di assoluto quanto il tempo ha consumato e, per ciò stesso, distrutto. A livello di sogno, il reale di un tempo, serbato intatto sotto la cenere dell'oblio involontario, risorge a nuova vita nella memoria, con l'accorato rimpianto per l’infanzia, con la struggente nostalgia per l'amore e la passione della giovinezza: momenti che aprono una prospettiva sfuggente verso una nuova realtà, oltre il fluire irreversibile del tempo; momenti alimentati dai ricordi, inevitabilmente venati dalla sottile malinconia autobiografica.
Del tempo perduto rimane soltanto il ricordo; e perché anche questo non segua la sorte del tempo, prima che agli altri, ho voluto ricordare a me stesso quanto la memoria ritiene ancora, come in un forziere mai aperto interamente prima d'ora. Come in prigionia ripassavo i giorni felici, nel tentativo di lenire l’orrore del presente, anche ora, nell'ora della sofferenza, avverto il bisogno di tornare indietro nel tempo, rifugio noto a me soltanto, nel tentativo, purtroppo inutile, di trovarvi una impossibile rassegnazione.
Ho trascurato, per questo, ho abbandonato anzi, i miei studi e le mie ricerche, perché si è spenta quella piccola fiammella che guidava i miei passi nelle tenebre. In definitiva, se non dovessi più ripigliarli, altri, come me e meglio di me, potranno illustrare le vicende storiche della nostra terra; ma nessuno, tranne me, potrebbe ricostruire, grano a grano, l’imprevedibile intreccio di casualità e di coincidenze, maturato in quel misterioso incontro genetico che ha dato origine alla vita dei miei figli.
Arduo è il cercare un nesso logico in questa mia premessa, ricca di pensieri larvali che non sono riusciti a materializzarsi in forma organica intellegibile. Lo stesso vale per molte delle pagine che seguono, interrotte spesso da riflessioni contingenti, da parentesi aliene al testo, dal ricorso pretestuoso a citazioni filosofiche o letterarie, che possono suggerire un vieto sfoggio di gratuita erudizione. Manca pure una rigida coerenza cronologica: il pensiero rifugge dagli schemi classici della biografia per vagabondare, con forma disordinata e incoerente, in un limbo in cui passato e presente si confondono o si alternano.
Per tutti i rilievi possibili, valga la considerazione che questa mia povera cosa, oltre che a rappresentare, per me, una medicina amara, nella ricerca disperata della guarigione, è destinata soltanto ai miei figli che, di me, conoscono e non condividono i molti difetti ed apprezzano, con filiale generosità, i pochi pregi.


Giovanni Modica Scala
Modica, 27 dicembre 1990
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